Una delle domande che qualsiasi ristoratore si è posto almeno una volta nella vita è: quanto deve essere lungo il menù? La stessa questione riguarda chi predispone la carta dei vini e i cocktail al bar. Tutti coloro che pongono una scelta tra più opzioni ad un potenziale cliente, hanno acceso questo interrogativo nella loro mente.
Voglio sgombrare il campo da equivoci. “La questione menù” si presta a facili fraintendimenti che non hanno nulla a che vedere con l’approccio neuroscientifico. Non parlo di ampiezza del menu in termini di prodotti trattati, è un fattore strategico che si lega alla specializzazione ed all’identità del locale. Non mi riferisco nemmeno al trend attuale del menu ristretto, in cui si riduce al minimo la scelta del cliente, all’estremo azzerandola del tutto. Fuori dalle mode e dalle strategie, esiste una lunghezza ideale per un menu? Quante opzioni devo inserire nella categoria antipasti? Quanti dolci è meglio proporre prima del caffè?
Neurovendita©, l’applicazione dei più recenti studi sul cervello al business può aiutare nel rispondere a queste domande, attraverso le ricerche sulla memoria e sulla presa di decisioni. Riassumo la mole immensa di ricerche in semplici riflessioni concrete, suffragate da solidi dati scientifici.
Molti studi hanno dimostrato che il massimo numero di elementi che il cervello può ricordare ed elaborare quando sta prendendo una decisione è 7 più o meno 2. Significa che il cervello umano riesce ad elaborare un numero di opzioni non superiore a nove. E’ il numero di Miller. Qualcuno lo chiama “Magic Number”, visto che è stata dimostrata la sua efficacia in tutti i campi decisionali tra diverse opzioni. Si può trarre una prima conclusione, meglio evitare di proporre oltre nove opzioni di scelta. Quando il cliente si trova a decidere tra 10 antipasti, il cervello va in sovraccarico cognitivo. E’ richiesto un lavoro extra alle cortecce frontali e questo genera un senso di affaticamento. L’esatto contrario del piacere che vogliamo far sperimentare a chi si siede a tavola. Se qualcuno volesse usare le ricerche in modo puro potrebbe affermare che sette è il numero di proposte migliori per non mandare in stress il cervello e fornire una percezione di scelta al cliente. In ogni caso le ricerche scientifiche pongono un limite massimo solo verso l’alto, indicando una tendenza verso la riduzione delle proposte. Se proponi 12 dolci diversi, ne hai almeno 3 di troppo, forse 5 da eliminare per facilitare la vita al tuo cliente, e soprattutto aumentare gli ordini in cucina.
L’articolo uscito per la prima volta nel 2000 pubblicato da Lepper, è rivoluzionario. Il titolo inglese è: “When choice is demotivating”. Traduzione letterale: “Quando la scelta è demotivante”. L’ipotesi dimostrata è che le scelte funzionano con facilità se le opzioni sul campo sono chiaramente diverse. Senza entrare nei dettagli tecnici, le persone tendono a consumare di più, quando le opzioni sono differenti in termini di gusto, provenienza e prezzo. Quando invece tendono a differenziarsi poco, si crea confusione, arrivando all’estrema conseguenza di ridurre la propensione a consumare. Faccio un esempio. Proporre la stessa tagliata in 5 varianti non è un’ottima scelta, crea disordine e demotiva il cliente. Proporre un vino identico di 6 cantine diverse, posizionato nello stesso cluster di prezzo, crea complessità mentale e riduce la voglia di bere. Il succo della ricerca confermata migliaia di altre volte è che conviene differenziare bene le proposte in termini di qualità (cosa) e valore (prezzo) senza che sussistano spazi di sovrapposizione. Maggiore è la differenza, più facile è la scelta per il cliente. Minore è la differenza, più il cliente non sa cosa ordinare. C’è il forte rischio che decida di non ordinare nulla o consumare meno rispetto a quanto potrebbe.
Un ultimo elemento attiene alla frequente presenza sui menu di lunghe frasi scritte che dettagliano il piatto. E’ utile? La risposta della ricerca neuroscientifica è molto chiara, assolutamente no. L’atto della lettura è complesso cognitivamente quindi crea un effetto stress che non si associa alla piacevolezza del sedersi a tavola. Il cervello rifiuta questa comunicazione per la sua costituzione biologica. Un recente studio da me coordinato in fase di pubblicazione, ha dimostrato che solo 1 lettore su 22 aveva letto il 25% di quanto scritto come descrizioni dei piatti sul menu. Si può riportare un motto che riassume la filosofia del ristorante, ma è vivamente sconsigliata la descrizione di ogni pietanza. Chi va al ristorante vuole rilassarsi e non leggere un romanzo o peggio ancora un trattato. Come la mettiamo con le immagini? Anche le fotografie dei piatti sul menù sono poco utili, infatti distruggono alla base l’aspettativa sensoriale del piatto. Il cervello elabora per il 35% stimoli visivi, quindi quando il cliente ordina, attende la visione del piatto che dalla cucina arriva in sala e poi al tavolo. Mostrare l’immagine toglie questo effetto sorpresa, riducendo la propensione d’acquisto.
Un guru del marketing americano ha coniato una frase che si può applicare anche all’architettura dei menu. “Cut choices, boost sales”. Taglia le opportunità di scelta per aumentare le vendite. Il consiglio è valido anche nella progettazione dei menù, con tutte le attenzioni del caso viste le peculiarità del mondo della ristorazione.